La classe media è morta… e non è una buona cosa

Forse non c’era bisogno di documentarsi più di tanto per capire che in Italia, così come in buona parte del “vecchio continente” l’aumento delle diseguaglianze e la crisi della classe media fossero fenomeni in atto da anni.

Prima di tutto molti di voi si domanderanno oggi quale senso abbia ancora parlare di ceto medio e cosa esattamente significhi quella che nel gergo americano è sempre stata definita la “middle-class”. Il sociologo americano Wright Mils definiva la classe media una “insalata mista di occupazioni” e cioè lavoratori indipendenti come artigiani, piccoli e medi imprenditori ma anche dipendenti pubblici e privati. Diciamo in modo più semplicistico che ceto medio ha sempre significato, secondo la nostra concezione, posizioni medie e cresciute nella scala dei redditi e dei consumi, oltre ad aumentato grado di istruzione, relativa sicurezza nelle prospettive di lavoro.

Per anni il ceto medio, anche in Italia, ha rappresentato il perno dell’equilibrio sociale nel paese, limitando l’influenza dei più facoltosi sulle scelte politiche, difendendo la “l’offerta pubblica di servizi sociali come l’istruzione e la sanità” e contenendo le spinte populiste dei più indigenti, contrari per esempio all’arrivo dei migranti e alla mobilità internazionale dei lavoratori.

Per capire meglio cosa sia successo ho trovato molto interessante la lettura di un libro non propriamente “leggero” di Branko Milanovic (già capo economista della banca mondiale) dal titolo “Ingiustizia Globale” (edito in Italia da Luiss).

Tra il 1998 e il 2012 la gloabalizzazione ha portato sviluppo e benessere ma i suoi benefici non sono stati distribuiti equamente e le diseguaglianza all’interno delle economie avanzate sono aumentate. E’ successo prioritariamente in Europa e negli Stati Uniti mentre a guadagnare sono stati principalmente l’1% più ricco del pianeta e le emergenti classi medie asiatiche, in Cina, India e nel Sud Est.

In Europa, in particolare, le diseguaglianze sono aumentate dopo la caduta del muro di Berlino del 1989. La globalizzazione ha portato l’arrivo sui mercati di beni e manodopera a basso costo con una contrazione sempre più elevata della ricchezza e del reddito, una progressiva perdita di potere contrattuale dei sindacati e un aumento della precarietà e della dequalificazione del lavoro.

L’impazzimento dei mercati finanziari (non adeguatamente regolamentati) e la bolla del mercato immobiliare hanno fatto il resto.

Tra i Paesi più industrializzati l’aumento della diseguaglianza si è espresso particolarmente in Gran Bretagna, USA e Italia ma anche in Germania in Spagna.

Ma quali gli effetti? In USA l’assottigliamento della middle-class ha rafforzato un sistema plutocratico con politiche sociali e fiscali sempre più in mano ai ricchi. In Europa invece ha fatto crescere il populismo: impoverita nel reddito e meno protetta la classe media si è spostata politicamente verso destra, verso partiti populisti che meglio di altri hanno saputo cavalcare la protesta (Jobbik in Ungheria, Front National in Francia, FPO in Austria, M5S e Lega in Italia).

Fornire delle ricette non è facile ma, con l’avvicinarsi delle elezioni politiche ci si può provare sapendo che pace e stabilità non possono essere ottenute in una comunità sociale e politica con troppe differenze e priva di un corposo ceto medio.

Per fare ciò penso che il Partito Democratico non possa inseguire il solito Berlusconi, tornato alla ribalta della politica con le solite ricette che tanto fanno cassetta ma faranno, se attuate, impazzire il debito pubblico: più spesa, meno tasse ai ricchi, azzeramento di tassa di successione  e imposta di bollo, bordate contro i burocrati europei, dura politica anti-immigrazione con un programma sempre più vicino a quello della destra estrema.

Proviamo invece ad essere dei veri riformisti e a dire che ai nostri giovani va garantita pari opportunità nell’accesso allo studio, che le imposte di successione devono essere rese più eque per una migliore redistribuzione delle ricchezze (come nel resto d’europa per intenderci) e che le imprese devono essere messe in condizione di fare reddito e di distribuirlo in modo incentivato ai propri lavoratori.

Non è una strada facile ma  è l’unica percorribile.

 
 
 

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